Di seguito riportiamo un articolo del filosofo israeliano Yehuda Elkana (1934-2012), scritto nel 1988 sul quotidiano Haaretz.
Il bisogno di dimenticare
Fui portato ad Auschwitz a soli dieci anni, e sopravvissi all’Olocausto. Ci liberò l’Armata rossa, e io passai svariati mesi in un “campo di liberazione” russo. Più tardi arrivai alla conclusione che non vi era molta differenza nel comportamento di molte persone che incontrai: tedeschi, austriaci, croati, ucraini, ungheresi, russi e altri. Sapevo bene che ciò che era avvenuto in Germania sarebbe potuto succedere ovunque, e a qualsiasi popolo, anche al mio. D’altra parte, conclusi che è possibile evitare simili orribili eventi grazie ad un’educazione appropriata e nel giusto contesto politico. Non c’è, e non c’è mai stato, nessun processo storico che necessariamente conduca al genocidio.
Per decenni dopo la mia immigrazione in Israele nel 1948, non ho prestato un’attenzione particolare al fatto che dall’Olocausto sia derivato un ben preciso messaggio politico ed educativo. Preoccupato per il mio futuro, evitavo generalizzazioni teoretiche circa gli usi del passato. Non è che evitassi o rifiutassi di parlare di ciò che mi accadde. Spesso, con i miei quattro figli, ho parlato del passato e delle lezioni che ne ho tratto. Ho condiviso pensieri ed emozioni con loro – ma solo a livello personale. La mia riluttanza a seguire il processo Eichmann; la mia decisa opposizione al processo Demjanjuk, il rifiuto di accompagnare i miei figli a visitare il “Yad Vashem” – tutto ciò mi sembrò una semplice preferenza personale, forse qualcosa di idiosincratico. Oggi, comunque, vedo la questione sotto una luce differente.
Parlando con i miei amici nelle ultime settimane, ho provato uno strano vantaggio su coloro che nacquero qui e che non sperimentarono l’Olocausto. Ogni volta che si ha notizia di qualche “incidente anomalo”, la loro prima reazione è il rifiuto a credere che ciò sia successo; solo dopo che la realtà gli viene sbattuta in faccia si arrendono ai fatti. Molti poi, perdono ogni senso di misura e accettano la linea del “sono tutti uguali” o “l’esercito israeliano è fatto così”; o detestano sia gli esecutori di questi atti che gli arabi che ci hanno condotti a questo punto. Molti credono che la maggior parte degli israeliani provino un profondo odio verso gli arabi, e sono ugualmente convinti del fatto che gli arabi provino un odio profondo verso di noi. A me, non succede niente di tutto ciò. Prima di tutto, non c’è nessun “incidente anomalo” che io non abbia visto con i miei occhi. E intendo letteralmente: sono stato un testimone oculare di un incidente dopo l’altro; ho visto un bulldozer seppellire gente viva, ho visto una folla in rivolta staccare i respiratori artificiali a degli anziani in ospedale, ho visto soldati spezzare le braccia alla popolazione civile, compresi bambini. Per me tutto questo non è nuovo. Allo stesso tempo non generalizzo: non credo che ci odino tutti; non credo che tutti gli ebrei odino gli arabi; io non odio i responsabili delle “anomalie” – ma ciò non significa che io perdoni i loro atti o che non mi aspetti che vengano puniti dalla legge con la massima severità.
D’altra parte, sto cercando radici più profonde di ciò che sta accadendo in questi giorni. Io non sono uno di quelli che credono che la metà di questa nazione sia composta da bruti. Certamente non sono uno di quelli che vede la brutalità come un fenomeno etnico. Innanzi tutto non vedo nessun legame tra il comportamento sfrenato e l’estremismo ideologico. Inoltre, l’estremismo ideologico è più una caratteristica degli ebrei che provengono dalla Russia, dalla Polonia e dalla Germania, molto più di coloro che sono originari del Nord Africa o dell’Asia.
Alcuni ritengono che la mancanza di sicurezza e le pressioni economiche e sociali abbiano prodotto una generazione frustrata, senza futuro individuale ed esistenziale – nessuna speranza di acquisire una buona educazione e una professione, di mantenersi rispettabilmente, di avere un’abitazione idonea e una qualità di vita ragionevole. É difficile valutare la veridicità di questa affermazione, e in particolare accertare il numero di persone cui riguarda apparentemente questo tipo di frustrazione. Ed è risaputo che questa frustazione personale può portare a comportamenti “anomali”.
Poi, mi sono convinto sempre di più che il fattore sociale e politico più profondo, che motiva molte delle relazioni tra numerosi israeliani e palestinesi, non è la frustrazione personale, ma piuttosto una profonda “angoscia” esistenziale nutrita da un’interpretazione particolare delle lezioni dell’Olocausto e dalla facilità con cui si è pronti a credere che il mondo intero sia contro di noi, e che noi siamo le vittime eterne. In quest’antica credenza, oggi condivisa da molti, io vedo la tragica e paradossale vittoria di Hitler. Due nazioni, metaforicamente parlando, emerse dalle ceneri di Auschwitz: una minoranza che afferma che “questo non deve accadere mai più” e una maggioranza spaventata e tormentata che dice “questo non deve accaderci mai più.” É evidente che, se queste sono le uniche lezioni possibili, io ho sempre creduto nella prima e considerato l’altra una catastrofe. Ora io non sto supportando una di queste due posizioni, ma vorrei affermare che qualunque filosofia di vita nutrita esclusivamente o per la maggior parte dall’Olocausto conduce a conseguenze disastrose. Ma non bisogna ignorare l’importanza storica della memoria collettiva, un clima in cui un intero popolo determina il suo atteggiamento verso il presente e dà forma al futuro della sua società, la quale vuole vivere in una relativa tranquillità e sicurezza, come tutti gli altri popoli.
La storia e la memoria collettiva sono una parte inseparabile di ogni cultura, ma il passato non è e non deve diventare l’elemento dominante che determina il futuro della società e il destino di un popolo. La stessa esistenza della democrazia è messa in pericolo quando la memoria dei morti partecipa attivamente al processo democratico. I regimi fascisti lo capirono bene e agirono proprio su questo. Oggi lo capiamo, e non è un caso se molti studi sulla Germania nazista si occupano della mitologia politica del Terzo Reich. Contare sulle lezioni del passato per poter costruire il futuro, sfruttare le sofferenze del passato come argomentazione politica – questo significa coinvolgere i morti nella vita politica dei vivi.
Thomas Jefferson una volta scrisse che la democrazia e il culto del passato sono incompatibili. La democrazia incoraggia il presente e il futuro. Troppo “Zechor!” (“Ricorda!”) e dipendenza dal passato mina le fondamenta della democrazia.
Se l’Olocausto non fosse penetrato così profondamente nella coscienza nazionale, dubito che il conflitto tra isaeliani e palestinesi avrebbe condotto a così tante “anomalie” e che il processo politico di pace si sarebbe trovato oggi in un vicolo cieco.
Non vedo minaccia più grande allo Stato di Israele del fatto che l’Olocausto sia sistematicamente e efficacemente penetrato nelle coscienze del pubblico israeliano, anche di quell’ampio segmento che non ha sperimentato l’Olocausto, così come della generazione nata e cresciuta qui. Per la prima volta capisco la serietà di ciò che stavamo facendo quando, decennio dopo decennio, mandavamo tutti i bambini israeliani a ripetute visite a “Yad Vashem”. Cosa volevamo che facessero dell’esperienza, questi teneri giovani? Declamavamo, intensamente e severamente, e senza spiegazione: “Ricorda!” “Zechor!” A quale scopo? Cosa dovrebbe fare un bambino con queste memorie? Molte delle fotografie di questi orrori vengono interpretate come un appello all’odio. “Zechor!” può facilmente essere inteso come un appello all’odio cieco e continuato.
Può darsi che per il mondo sia importante ricordare. Non sono ancora convinto di questo, ma ad ogni modo non è il nostro problema. Ogni nazione, tedeschi compresi, deciderà da sè e sulla base dei propri principi, se vogliono ricordare o meno.
Per quanto ci riguarda, dobbiamo imparare a dimenticare! Oggi, per i leader non vedo incarichi politici ed educativi più importanti se non quelli di schierarsi dalla parte della vita, di dedicarsi alla creazione del nostro futuro e di non preoccuparsi dal mattino alla sera di simboli, cerimonie e lezioni dall’Olocausto. Esse devono estirpare il dominio di questo “Ricorda!” storico sulle nostre vite.
Ciò che qui ho scritto è molto duro e, contrariamente al solito, scritto nero su bianco. Non si tratta di un incidente o di uno stato d’animo passeggero. Non ho trovato nessun modo migliore per manifestare la serietà del problema. Io so bene che nessuna nazione può o deve dimenticare totalmente il suo passato, con tutto ciò che questo comporta. Ovviamente esistono dei miti essenziali per la costruzione del futuro, come quello dell’eccellenza o quello della creatività; certamente non chiedo che si smetta di insegnare la nostra storia. Ciò che sto cercando di fare è di dislocare l’Olocausto dall’asse centrale della nostra esperienza nazionale.
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