Ringraziamo l’amico A.G. Vox: ancora una volta, ha voluto condividere con VOX POPULI i propri studi e le proprie riflessioni.
Pubblichiamo il suo ultimo lavoro e teniamolo ben presente, soprattutto in vista delle prossime elezioni politiche del 4 Marzo p.v. .
Buona lettura.
“UNA CIVILTA’ SENZA SOLDI, VOTATA AL PROFITTO”
di A.G. Vox
Nel 2001, con l’avvento dell’euro, l’Italia ha perso la sovranità monetaria e con essa le ultime forze dello Stato-impresa a produrre una politica economica nel reale interesse del Paese.
Già a partire dall’ultimo decennio del secolo scorso, un ampio processo di privatizzazioni aveva ridotto la presenza dello Stato nelle aziende e nel corso del decennio successivo i governi hanno perfezionato il disegno neoliberista riducendone l’intervento anche nel sistema bancario affidando la politica monetaria italiana ad una banca privata: la Banca Centrale Europea.
Prima della fine del Novecento lo Stato a moneta sovrana aveva rappresentato uno dei principali attori dell’economia italiana.
A lungo l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) aveva avuto in portafoglio fino a mille imprese e oltre cinquecentomila dipendenti.
Al contrario, successivamente all’avvento della moneta unica, la politica economica italiana ha in gran parte favorito soggetti privati al di fuori del territorio nazionale, multinazionali che si sono assicurate imprese e servizi pubblici e allo stesso tempo hanno rilevato un gran numero di piccole e medie aziende private sull’orlo del fallimento a causa di una crisi economica creata dalle banche, ma voluta e progettata dai centri di potere della finanza.
I governi che si sono avvicendati in questi anni, con politiche di sgravi fiscali a favore delle imprese, si sono sempre mostrati più sensibili con chi creava occupazione sul territorio e meno con la forza lavoro, a cui sono stati sottratti in breve tempo molti di quei diritti conquistati in anni e anni di dure lotte.
Governi cosiddetti “tecnici” che hanno creato condizioni affinché le imprese private riuscissero a “capitalizzare i profitti e socializzare le perdite” e sono accorsi prontamente al capezzale di banche malate colpevoli di aver abbandonato il classico sistema di credito ad “usura legalizzata” a favore di investimenti in prodotti finanziari ad alto rischio.
Banche private ricapitalizzate con denaro pubblico grazie a “tecnici” che non hanno esitato a prelevare dal portafoglio degli italiani denaro che poteva essere destinato dal bilancio dello Stato alle infrastrutture, alle scuole, alla prevenzione per il rischio di calamità naturali o alla previdenza, alla sanità, ai diversamente abili, in parole povere allo stato sociale, ma al contrario sono serviti per scongiurare il fallimento di aziende private che hanno bruciato in poco tempo i risparmi di una vita di molti cittadini.
Governi, privi di una politica monetaria, che per non incrementare il già pesante debito pubblico con la richiesta di ulteriori prestiti ad una banca privata, hanno operato tagli alla spesa pubblica col risultato, ad esempio, di posticipare il diritto alla pensione ai lavoratori, di accorpare il numero delle Unità Sanitarie Locali, dei presidi ospedalieri, dei posti letto, dei centri per le chiamate urgenti di pronto soccorso.
Governi “tecnici”, non legittimati dagli italiani, ma chiamati dalla più alta carica dello Stato, il Presidente della Repubblica, col pretesto di gestire un periodo di emergenza di crisi economica che perdura dal lontano 2008 e si prepara a compiere un decennio di progressivo impoverimento economico, culturale e morale del Paese.
Ma perché la crisi non si arresta?
Perché non si ravvisano cenni di reale ripresa economica?
La crisi nasce prima del 2008, prima della gestione “spensierata” delle banche, matura pian piano, dal momento in cui il potere finanziario lancia la premessa per la prima sperimentazione sul campo delle teorie economiche liberiste in Cile, quando nel 1973 un colpo di Stato mette fine alla vita e al governo del presidente socialista Salvator Allende e consegna il Paese alla dittatura di Pinochet.
Da un governo di Unidad Popular che vedeva la nazionalizzazione delle imprese strategiche e del settore bancario, il controllo totale dei movimenti dei capitali finanziari, l’aumento dei salari e la redistribuzione delle ricchezze finalizzati alla crescita del mercato interno e l’aumento dei dazi doganali, si passa ad un governo con un programma di riforme liberista che in breve tempo comporta la privatizzazione del novanta per cento delle imprese controllate dallo Stato (da quattrocento a quarantacinque), del sistema bancario, la liberalizzazione del movimento dei capitali finanziari, l’eliminazione quasi completa delle barriere commerciali, la fine del controllo dei prezzi ed un’economia orientata esclusivamente sull’esportazione delle risorse naturali interne.
Completarono il pacchetto di riforme la privatizzazione dell’istruzione, della sanità, del sistema pensionistico, nonché politiche del lavoro che prevedevano l’abolizione dei sindacati, la riduzione dei salari e la libertà di licenziamento.
Le teorie economiche liberiste sono state poi esportate in molti paesi, Italia compresa, ma chi le ha progettate è consapevole sin dall’inizio che la loro riuscita è strettamente legata alla politica monetaria di quel paese e solo attraverso il controllo della sua valuta corrente sarà possibile dirigere sia la politica monetaria che quella economica ispirata ai dogmi neo liberisti.
Oggi chi si trova al timone delle due politiche riesce a “colonizzare” qualsiasi Stato a prescindere da chi fa le sue leggi, senza incontrare resistenze e spargere una sola goccia di sangue come invece era avvenuto in Cile.
Anche l’Italia, a partire dal 2001, intraprende l’attuale difficile esperienza di essere governata da una moneta e governare senza moneta.
La scelta di abbandonare la propria moneta in cambio di una valuta a cambio fisso (l’euro) ha generato un impoverimento esponenziale del Paese a vantaggio di un enorme “mercato libero” in cui regna speculazione sulle fonti di produzione e nella rete commerciale dei beni prodotti.
Questo processo sta alla base della speculazione finanziaria che genera a sua volta malaffare e corruzione.
In poco più di quindici anni lo Stato italiano, uno Stato in cui il cittadino ha l’obbligo di lavorare, ha bruciato migliaia di posti di lavoro, ha privatizzato il fior fiore delle proprie imprese e dei servizi pubblici, ha ridotto ai minimi termini lo stato sociale e le tutele per i lavoratori in ossequio ad una politica monetaria trasferita ad una banca privata: la Banca Centrale Europea.
Una banca di cui l’attuale presidente, il 2 giugno 1992, a bordo del panfilo “Britannia” ormeggiato al largo dell’Argentario, si presentò, insieme ad altri alti dirigenti di imprese pubbliche italiane, come punto di riferimento italiano per la finanza internazionale, con l’impegno di avviare la stagione delle privatizzazioni in Italia.
Alcuni mesi prima, il 7 febbraio 1992, l’Italia aveva sottoscritto il Trattato di Maastricht, il telaio monetarista per la costruzione di un’Europa che liberata dal blocco socialista poteva finalmente dare il via al pieno dispiegarsi dei mercati e degli interessi dei capitali finanziari.
Per l’Italia suonò il primo campanello d’allarme con la crisi monetaria del settembre 1992, con pesantissimi attacchi speculativi alla sua valuta corrente (la lira), e fu costretta ad uscire dallo SME (Sistema Monetario Europeo) svalutando ripetutamente la propria moneta per poter rientrare nello SME solo nell’autunno 1996, in virtù della legge finanziaria del 1997 dell’allora governo Prodi che portò agli italiani l’Eurotassa.
Il terreno era pronto per approdare alla moneta unica, l’euro, una moneta non sovrana, coniata per intensificare la speculazione sui mercati e sostenere la corruzione dei governi nella zona euro, Italia compresa.
Il Paese si preparava così a diventare la colonia di una banca nelle mani di privati, la BCE, che avrebbe utilizzato d’ora in poi il lavoro degli italiani per le proprie finalità.
In questi diciassette anni la politica monetaria è stata orchestrata, non dallo Stato, bensì da una banca privata che ha contribuito a distruggere i sistemi produttivi italiani a favore di altri interessi lontani anni luce da quelli italiani.
Una politica monetaria che non ha favorito la ripresa economica, ma ha generato inasprimento fiscale e tagli alla spesa pubblica.
Nel luglio 2012 il presidente della Banca Centrale Europea dettava la politica monetaria anche per l’Italia e proclamava che l’istituto era pronto a preservare l’euro a qualsiasi costo.
Come?
Creando dal nulla trilioni di euro per comprare il debito di Stati in bancarotta ed evitare che il mercato se ne sbarazzasse in massa.
Tale politica monetaria avrebbe dovuto sancire la “ripresa finanziaria” degli Stati della zona euro continuando a mantenere l’illusione della solvibilità dei governi mantenendo appetibile il loro debito insolvente così da permettere il loro continuo indebitamento.
Ecco perché la ripresa economica non è avvenuta, perché questa avrebbe richiesto interventi strutturali, soprattutto tagli di spesa e di tasse, compito non della banca centrale ma dei governi dei singoli Stati, infatti il debito pubblico è sempre deflazionario cioè non è ripagabile se non estraendo reddito dalla collettività e quindi riducendo gli ingredienti della crescita: risparmi e investimenti.
Ma osserviamo da vicino perché in Italia la forza lavoro superstite continua a lavorare tra mille difficoltà per una moneta straniera e non per una moneta italiana, utile alla vera ripresa economica del Paese.
Non bisogna dimenticare che l’Italia da anni, per rispettare il tre per cento del PIL nel deficit pubblico imposto dai Trattati europei, riduce le spese, ritarda i pagamenti e incrementa la pressione fiscale con il risultato di far soffrire l’economia reale e innescare una serie di circoli viziosi.
Le imprese e le famiglie dispongono di minori risorse finanziarie cosicché le prime riducono gli investimenti e le seconde contraggono i consumi.
La riduzione dei consumi sommandosi alla pressione della spesa pubblica riduce la domanda aggregata e quindi le vendite delle imprese che reagiscono a loro volta riducendo investimenti e occupazione, il che fa ulteriormente diminuire i consumi e la domanda.
Le imprese, inoltre, tentano di ripagare i crediti ottenuti dalle banche e così anche i bilanci delle banche si appesantiscono pericolosamente ed esse diventano più esigenti e più diffidenti nella concessione dei crediti.
La spesa creditizia soffoca ulteriormente l’economia reale già messa in difficoltà dalla riduzione della domanda.
La contrazione dell’economia reale tende poi a ridurre le entrate fiscali per cui mantenere il deficit entro il tre per cento diventa per il governo una fatica e ancor più difficile diventa ridurre il rapporto fra debito e PIL se il prodotto interno lordo cala e il debito continua inesorabilmente a crescere gonfiato dalla mole annuale degli interessi.
All’interno di questo scenario che si ripropone puntualmente ogni anno da oltre tre lustri, l’unico elogio va al lavoro encomiabile di raccolta dati dell’ISTAT, tenuto sempre sotto pressione per fini di propaganda dalle “libere associazioni” di cui all’art. 49 della Costituzione.
Associazioni private, da tempo, troppo libere per “concorrere a determinare la politica nazionale”, che hanno creato un sistema di falsa democrazia in cui regna corruzione e malaffare e pertanto risultano sempre meno legittimate dalla volontà popolare (meno di un italiano su due si reca oggi a votare).
Le nuove generazioni, se riusciranno a uscire fuori dalla ragnatela dell’informazione manipolata, potranno facilmente rendersi conto come, a partire dal 2001, l’emissione e il controllo della moneta del loro Paese, con tutto quello che ne consegue, siano stati di fatto regalati a centri di potere privato da politicanti capaci di intendere e volere, consapevoli di aver condannato la Nazione a sprofondare sempre più nel proprio debito, ma quello che è più triste per il popolo italiano, consapevoli che ogni futura politica della Nazione, compresa quella economica, non sarebbe più stata espressione della sovranità popolare, ma il frutto del desiderio di potere egemonico di lobby private.
Forze che attraverso il controllo della moneta sono riuscite a privatizzare interi Stati e riportare alla condizione di servi della gleba i rispettivi popoli.
Chi ha sostituito l’euro alla lira nelle tasche degli italiani oggi controlla le ricchezze, le risorse naturali e la forza lavoro del nostro Paese e ha ridotto l’Italia a Paese del terzo mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera con tutti i danni che ciò implica.
Si tratta di poteri dominanti della finanza che da oltre quarant’anni, grazie al controllo e alla direzione della politica monetaria scorazzano per il pianeta per imporre politiche economiche di matrice neoliberista.
In ossequio ai periodi di splendore del nostro Stato a moneta ed economia sovrana torna alla mente la citazione, oggi più attuale che mai, dello storico, economista, già membro del cda dell’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi), Giulio Sapelli, in occasione del suo intervento in audizione presso la Commissione Bilancio della Camera nel 2012: “abbiamo aderito anche noi al mito liberista, tanto che negli anni ’90 abbiamo smantellato il sistema attraverso quelle che chiamo <privatizzazioni alla Boris Eltsin>. L’altro signor Eltsin è stato Romano Prodi, che nella storia economica futura avrà una grandissima responsabilità, perché in dieci anni di presidenza dell’IRI ha svenduto il patrimonio pubblico italiano”. (1)
Solo se la gente capirà cosa significa essere uno Stato a moneta sovrana, il funzionamento della moneta moderna e quanto la stessa incide sulla politica economica del Paese, il governo cesserà di giustificarsi dicendo che, a causa dell’elevato debito pubblico, non ci sono più i soldi per implementare i servizi pubblici, costruire ospedali, scuole e infrastrutture, e gli italiani a quel punto si renderanno conto come la capacità di crescita della produzione industriale in Italia è crollata, già a partire dal 2007, con le privatizzazioni e il rigore di spesa dell’allora governo Prodi.
La fotografia dell’Italia attuale è quella di un Paese sempre più povero, con il più alto tasso di disoccupazione giovanile in Europa, che si trova a far fronte ad un crescente disagio sociale amplificato dai fenomeni migratori in continua espansione per i quali lo Stato, orfano dell’aiuto degli altri paesi europei e di un’adeguata politica strutturale per l’immigrazione, stenta a trovare soluzione.
Quello che preoccupa però di più è l’impoverimento di lavoro e di reale democrazia ovvero la corrosione dei due pilastri su cui, nel 1948, fu edificata, con il sacrificio di migliaia di vite, la struttura dello stato repubblicano.
La stucchevole propaganda politica fatta di nuovi posti di lavoro a tempo determinato e part time, la falsa partecipazione democratica, una legge elettorale studiata per arrivare al potere anche con una manciata di voti, la completa sudditanza politico-economica e finanziaria a istituzioni europee pilotate da un esecutivo di nominati, ha disgregato il tessuto sociale del Paese.
Gli italiani affrontano la nascita del terzo millennio con l’esercizio della sovranità popolare compromesso, all’interno di uno Stato spogliato della sovranità monetaria, nuovi servi della gleba “di un capitalismo finanziario che non è il capitalismo produttivo, è il suo parassita, che dirotta i capitali del primo nella speculazione” (Stéphane Hessel e Edgar Morin).
Un virus, la speculazione, che continua ad infettare l’intero emisfero lasciandosi dietro migliaia di vittime, in particolare nei paesi sviluppati, logorando le vite di intere generazioni private di ogni valore per essere sacrificate sull’altare del consumismo.
Il sorgere del terzo millennio vede nascere una nuova civiltà svuotata degli antichi valori, con l’anima venduta al profitto.
(1) = http://leg16.camera.it/470?stenog=/_dati/leg16/lavori/stencomm/05/indag/crescita/2012/0329p&pagina=s010
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