Ringraziamo l’amico A.G. Vox: ancora una volta, ha voluto condividere con VOX POPULI i propri studi e le proprie riflessioni.
Pubblichiamo il suo ultimo lavoro, una puntuale e articolata analisi sullo status della nostra Democrazia, in relazione ai poteri che realmente la governano.
Buona lettura.
OGGI LA DEMOCRAZIA È LA MASCHERA E NON IL VOLTO DEL REGIME DEMOCRATICO
“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (art. 49 Costituzione).
“L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge.
È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica.
I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce” (art. 39 Costituzione).
“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” (art. 1 Costituzione).
Lavoro e democrazia, le due colonne portanti del nostro ordinamento repubblicano.
La vita dello Stato fa leva sulla forza organizzata del lavoro e sulla forza della democrazia di cui deve essere intrisa la politica nazionale.
Il lavoro come garanzia per il benessere economico e sociale della comunità e come necessità per sostenere il costo delle istituzioni pubbliche affinché al loro interno sia garantito l’esercizio della democrazia, in quanto tutte le cariche pubbliche si riconducono direttamente o indirettamente alla volontà e al consenso del popolo sovrano.
Lavoro e democrazia, un binomio indispensabile per accedere alla forma repubblicana, “pietrificata” dall’art. 139 della Costituzione, come unica e sola garanzia del regime democratico.
Come nel processo di combustione è necessario un combustibile e un comburente, per alimentare la fiamma del modello repubblicano è indispensabile il lavoro (combustibile) e la democrazia (comburente).
L’esempio aiuta a capire come, senza lavoro o senza democrazia, non esiste Repubblica, non esiste esercizio della sovranità popolare, non si può realizzare benessere per tutti, ma creare soltanto condizioni favorevoli alla concentrazione di ricchezza e potere nelle mani di pochi, come del resto la storia ci insegna, attraverso l’esperienza di imperi, monarchie e regimi.
Vestale della fiamma repubblicana è la politica con il compito di vigilare affinché non vengano mai a mancare lavoro e democrazia e il fuoco resti sempre acceso.
Protagonisti della politica sono i partiti: libere associazioni di privati cittadini, cui la Carta Costituzionale concede di elaborare l’indirizzo politico dello Stato attraverso politiche democratiche a tutela degli interessi di tutta la collettività.
Ai partiti politici, elementi costitutivi dell’organizzazione sociale, la Costituzione non assegna solo il compito di rappresentare ed unificare gli interessi diffusi ma soprattutto di mediare per costruire ed esprimere una volontà unitaria.
Sono trascorsi poco meno di tre quarti di secolo dalla data in cui il popolo italiano è stato chiamato a scegliere tra repubblica e monarchia (2 giugno 1946), ma il fuoco repubblicano non arde più come agli albori ed è arrivato il momento di prendere coscienza del perchè il Paese da oltre un decennio è precipitato in un subdolo regime in cui istituti come lavoro e democrazia risultano sempre più corrosi e consumati da mercati, borsa, banche, in parole povere dal potere incontrollato della finanza.
Da un capitalismo finanziario, parassita dell’economia reale e del capitale economico, che grazie all’invenzione del modello globale, per il solo fine di realizzare profitto, ha da un lato progressivamente logorato il lavoro attraverso il controllo della speculazione su ogni fonte produttiva e dall’altro ha falsato la democrazia per “arruolare” capi di Stato e politici compiacenti a decretare la fine degli Stati come imprese pubbliche, come figure garanti del processo economico nazionale.
Grazie a questo disegno il potere finanziario ha prodotto paesi sempre più poveri con alle spalle lo spettro della disoccupazione e, con una sopraffina opera di “ingegneria sociale” ovvero un sistema di condizionamento implicito molto forte, ma invisibile ( paura – speranza), è riuscito a manipolare la massa, ignara di essere manipolata.
Il libero movimento di capitali economici ha reso possibile gli investimenti in ogni angolo del pianeta permettendo alle multinazionali di speculare senza alcuna distinzione su materie prime e risorse umane.
La disperazione di quei lavoratori e delle proprie famiglie che in poco tempo si ritrovano senza un posto di lavoro a causa di una politica aziendale che, solo in nome del profitto, trasferisce o accorpa le fonti di produzione in nuove sedi di lavoro, spesso a chilometri e chilometri di distanza, non turba minimamente le coscienze di coloro che a fine anno festeggiano l’arrivo di nuovi utili.
Oggi, complice un uso strumentale della comunicazione, come risultato del diritto all’ informazione libera e senza regole, l’Italia si trova in un regime di scarsa democrazia, abilmente mascherato dai partiti che illudono quotidianamente la massa con la speranza dell’arrivo di nuovi posti di lavoro, di ripresa economica, di nuovo benessere.
Speranza a cui si accompagna la paura di possibili attentati terroristici e preoccupazione per il forte disagio sociale martellato dalla quotidiana cronaca nera abilmente “amplificata” dai media.
Risulta importante allora capire perché al potere della corona si è sostituito il potere del denaro e come i partiti, dal dopoguerra ad oggi, hanno progressivamente flagellato l’economia pubblica prodotta dallo Stato e con essa lo stato sociale, a tutto vantaggio di un’economia privata che non può “svolgersi in contrasto con l’utilità sociale” (art. 41 Cost.).
Comprendere perché il modello neoliberista, smantellando lo Stato – impresa, grazie all’illusione della libera concorrenza, sia riuscito nel devastante progetto di accrescere la speculazione sul commercio e consolidarla sia in campo economico che finanziario.
Prendere coscienza di come, attraverso una finanza “facile”, siano stati generati nuovi enormi flussi di denaro per arricchire pochi e al contempo finanziare la corruzione politica, principale causa del logoramento della democrazia e, oggi in Italia, della progressiva rinuncia all’esercizio della sovranità popolare di un italiano su due.
Uno schiaffo questo per la democrazia reale che avrebbe dovuto destare allarme in chi è chiamato ad esserne garante, ma al contrario nei partiti non ha acceso nessuna apprensione.
Unica preoccupazione è stata quella di pensare una nuova legge per rendere utile il risultato elettorale anche con un’affluenza alle urne dimezzata.
Dall’attuale sistema elettorale, dichiarato incostituzionale perché privo di una soglia minima per l’attribuzione del premio di maggioranza, i partiti hanno pensato l’italicum, una proposta di legge con previsione di un congruo premio di maggioranza, il quindici per cento, pari a novanta seggi, come compenso ad un unico partito che, a danno di tutti gli altri, si troverebbe nella condizione di triplicare i propri seggi rispetto ai voti realmente ricevuti.
Un vistoso regalo, il premio di maggioranza, per gonfiare le risicate percentuali di voti che i partiti riescono ancora ad incassare e supplire all’assenza della metà del corpo elettorale.
Considerato però, che all’interno dell’ordinamento repubblicano, il compito del sistema elettorale è rappresentare fedelmente la volontà popolare attraverso partiti obbligati a “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (art. 49 Cost.), l’italicum avrebbe riproposto un sistema di governo, inusuale per la forma repubblicana, basato sul partito unico, come accadde nel ventennio fascista.
La proposta quindi è stata accantonata e, oggi, i partiti sono alla ricerca di una nuova legge elettorale che possa favorirli e renderli protagonisti anche con una minima percentuale di consensi.
In effetti, negli ultimi dieci anni di vita politica del Paese, la fiamma repubblicana stenta a restare accesa, sia per la scarsa qualità del comburente (democrazia), a causa dell’incostituzionalità dell’attuale legge elettorale, sia per il perdurare della grave crisi economica che ha prodotto un elevato tasso di disoccupazione in conseguenza alla riduzione di numerosi posti di lavoro (combustibile) per i motivi già accennati.
Una Repubblica, quella italiana, carente di democrazia e di lavoro che non ottempera più al principio costituzionale di separazione fra i poteri dello Stato (legislativo, esecutivo e giurisdizionale) e si trova nella condizione in cui potere legislativo ed esecutivo sono nelle mani dell’organo esecutivo: l’attuale Governo o per meglio dire nelle mani dei quattro governi“tecnici”, non legittimati dagli italiani, che si sono avvicendati in questo ultimo decennio.
Inoltre, il Paese, spogliato di sovranità monetaria e con deroga della propria sovranità costituzionale ad organismi europei e dell’Eurozona, si trova a fronteggiare continue e pesanti politiche di austerità inseguendo quello che sembra essere diventato il miraggio di un’ipotetica ripresa economica.
In settant’anni di vita repubblicana quei partiti che avrebbero dovuto garantire lavoro e democrazia, in altre parole l’ordinamento repubblicano a tutela del bene comune, hanno preferito strizzare l’occhio all’interesse privato, riducendo progressivamente la capacità di impresa dello Stato attraverso il processo di privatizzazione di gran parte dei suoi servizi, col risultato di compromettere le politiche a sostegno del lavoro e ridurre ai lavoratori quei diritti fondamentali che nel tempo avevano faticosamente conquistato.
Sono gli stessi partiti che oggi vogliono demolire quel che resta della democrazia puntando il dito sui costi dell’apparato istituzionale, a loro dire troppo elevati ma in realtà in ossequio alla volontà di organismi sopranazionali, con l’intenzione di accorpare istituzioni e servizi pubblici e porre le basi per un regime di tipo oligarchico in uno Stato diventato sempre più spettro di se stesso.
Uno Stato, quello italiano, cui la Costituzione riconosce come unica e sola deroga alla sovranità le “limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” (art. 11 Cost.).
Limitazioni di sovranità come Paese “amante della pace”, non limitazioni in nome di una politica economica e monetaria comune che ad oggi si è rivelata sfavorevole agli interessi del popolo italiano e obbliga una famiglia su quattro a vivere in povertà (dati ISTAT).
Ma chi sono questi partiti che, da oltre quarant’anni, inseguono il modello neoliberista “privato è meglio che pubblico” e hanno di fatto consegnato la sovranità del popolo italiano ad una istituzione sopranazionale chiamata Europa?
Una struttura disciplinata da Trattati, i cui organi derogano dal principio di separazione tra poteri, che ci obbliga ormai da tempo a pesanti politiche di austerità senza aver prodotto benessere economico nel nostro Paese, ma al contrario, il massimo della disuguaglianza sociale proprio nel momento in cui la ricchezza prodotta dagli italiani era arrivata a consentire il massimo delle possibilità di benessere individuale e collettivo.
Negli ultimi quarant’anni di Repubblica gli italiani hanno subito limitazioni di sovranità a causa di politiche economiche e monetarie europee che hanno privato il Paese di sovranità monetaria e costituzionale con la grave conseguenza di spingerlo ad un progressivo indebitamento pubblico anche in virtù di pesanti interessi passivi originati dalla speculazione finanziaria.
Disoccupazione, tagli all’assetto istituzionale dello Stato, allo stato sociale, pressione fiscale sopra al cinquanta per cento e aumento delle famiglie che vivono in povertà, sono i dati reali che rappresentano l’attuale fotografia del Paese.
Alla fine del 2015 il debito pubblico si attestava a 2.171.671 milioni di euro (Ministero del Tesoro http://www.dt.tesoro.it/it/debito_pubblico/_link_rapidi/debito_pubblico.html ), oggi prosegue senza freni la sua corsa.
Col Trattato di Maastricht, in vigore dal 1° novembre 1993, furono create le basi per la definitiva cessione della sovranità monetaria, non all’Europa che avevano sognato gli italiani, ma all’Europa voluta dalla finanza, il cui scopo era quello di creare una moneta unica (l’euro) strappata dal controllo democratico (Banca d’Italia) e attribuita in via esclusiva ad un organo di proprietà privata (Banca Centrale Europea) che in tal modo avrebbe acquisito un controllo totale delle politiche economiche e monetarie del Paese.
Dal 2001, l’Italia ha una moneta come governo, ma governa senza moneta.
Chi, infatti, ha in mano il controllo della valuta corrente di una nazione può tranquillamente disinteressarsi di chi fa le sue leggi.
All’interno di questo scenario preoccupa l’elevato tasso di disoccupazione giovanile, la decrescita della natalità e il peso della spesa sostenuta dallo Stato per far fronte all’invecchiamento della popolazione.
Ogni anno, il due giugno, si festeggia l’ anniversario della Repubblica, ma esiste ancora una repubblica in Italia?
A vigilare la fiamma repubblicana, ereditata dal sacrificio di migliaia di vite umane, oggi è rimasto un italiano su due che esercita la propria sovranità attraverso rappresentanti di libere associazioni private (partiti) che, all’insegna di una colorita “politica di insulti” fra opposti schieramenti, contribuiscono a svilire anche quel po’ di democrazia riuscita a sopravvivere all’interno di un penoso sistema di corruzione che riconosce solo nella finanza l’aspetto più efficace del governo politico.
Partiti, libere associazioni di privati cittadini, che in uno Stato orfano di sovranità monetaria si prefiggono di ridurre la spesa pubblica con politiche di tagli e conseguente accorpamento dei servizi pubblici ignorando l’ordinamento repubblicano che “riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo” (art.5 Cost.).
Accentrare oggi è un vocabolo molto caro all’attuale politica, l’unica soluzione per ridurre la spesa pubblica che lo Stato sostiene a garanzia del bene comune.
Ma accentrare rappresenta oggi per i partiti anche l’unica soluzione politica conseguente alla privazione di sovranità monetaria e al tentativo di arginare l’indebitamento pubblico del Paese che per finanziare la spesa pubblica è costretto a mettere in atto scelte obbligate:
– procurarsi liquidità pagando interessi ai privati (banche) e innalzare così il debito pubblico;
– inasprire la leva fiscale riducendo il potere d’acquisto delle famiglie con la conseguente contrazione dei consumi e al contempo la riduzione di una grossa fetta di entrate per lo Stato derivante dalle imposte su beni e servizi.
Come tutti possono capire entrambe le soluzioni si presentano svantaggiose per la ripresa economica e di conseguenza sfavorevoli alla ripresa del lavoro.
Ciononostante i partiti continuano a bruciare posti di lavoro anziché crearli, accorpano servizi pubblici per poi consegnarne la gestione ai privati attraverso gare d’appalto le cui regole, disciplinate da norme comunitarie e recepite dalla legislazione statale, finiscono spesso per ridurre la qualità del servizio e spalancano le porte alla corruzione politica.
Ma i partiti sono già arrivati alla fusione delle stesse istituzioni con politiche mirate a cancellare enti locali (province), riducono il numero dei comuni attraverso il loro accorpamento e a breve, con la stessa modalità, anche il numero delle Regioni, per un unico e semplice obbiettivo: ridurre la spesa pubblica del sistema istituzionale italiano in ossequio al rispetto dei vincoli di bilancio dettati dall’Unione Europea ed in virtù dei quali gli stessi partiti hanno “deturpato” la Carta Costituzionale con l’introduzione dell’obbligo di pareggio di bilancio per lo Stato.
Anche in questo caso è semplice capire come queste associazioni politiche, noncuranti del disposto di cui all’art. 5 del precetto costituzionale, finiranno per accentrare e ridurre l’apparato istituzionale periferico dello Stato e con esso la democrazia.
Partiti che giustificano il loro operato in nome di una politica economica europea che in realtà serve solo a mascherare il reale percorso speculativo di chi controlla l’economia e la finanza a livello mondiale attraverso banche d’affari addirittura in grado di elaborare programmi attuativi per i governi dei singoli Stati.
A questo punto sorgono spontanee alcune domande: perché, al momento della stesura del testo costituzionale, furono introdotte con l’art. 39 (Sindacati) tutele particolari per il lavoro, ma non altrettanto per la democrazia?
Perché ai partiti, organismi di tipo privato con una funzione pubblica predominante nella vita dello Stato, fu assegnato il delicato compito di figure garanti della democrazia?
Se viene a mancare il lavoro la sola democrazia non può garantire l’ordinamento repubblicano ed allora i partiti si accaniscono a strumentalizzarne la sua essenza per mostrare al popolo sovrano il loro agire con metodo democratico e allo stesso tempo mascherare quella sofferenza sociale generata dalla mancanza di lavoro.
Per comprendere meglio l’argomento è necessario volgere lo sguardo alla fine del secondo conflitto mondiale quando il liberalismo dette vita ai governi costituzionali in sostituzione dei governi autocratici per arrivare fino ai nostri giorni allorché la base del sistema repubblicano risulta sempre più consumata e, orfana del lavoro, il concetto di democrazia si rivela utile soltanto per fare propaganda, per alterare le opinioni pubbliche collettive, confonderle con un estenuante e perenne contraddittorio, affinché la massa si smarrisca in una babele di pareri, non abbia opinioni personali in fatto di politica e deleghi “in bianco” a dirigenti di partito il proprio futuro e quello dei propri figli.
Se in effetti la democrazia, per sua natura, mette a confronto una mole di opinioni che imbrogliano e confondono facilmente la massa e creano disgregazione in quest’ultima, la forma costituzionale si presta ad essere una scuola di dissensioni, disaccordi, contese e inutili agitazioni di partito: in breve, essa è la scuola di tutto ciò che indebolisce l’efficienza di governo.
E un governo debole, paradossalmente, diventa forte con i deboli e debole con i forti, con la conseguenza di creare terreno fertile al proliferare di “potentati” di vario genere che in modo occulto finiscono per manovrare e sostituirsi all’azione di governo, non per il bene comune, ma per realizzare profitto per pochi grazie anche alla compiacenza di politici corrotti ai vertici delle istituzioni.
In questo contesto la massa crede di essere governata all’interno di un sistema democratico, crede di esercitare la propria sovranità, ma in realtà a capo delle istituzioni vengono sempre collocati soggetti che non sono mai scelti e messi lì per caso.
Funzionari pubblici che proclamano di rispondere solo ed esclusivamente alla legge, ma che in realtà trovano sempre il modo di aggirarla e rispondere, nel bene o nel male, a quelle associazioni private, i partiti, di cui fanno parte e a cui, come previsto dalla Costituzione, spetta il compito di costruire la politica nazionale con particolare riguardo ad una politica economica tesa a favorire lo sviluppo del lavoro sempre all’insegna di regole democratiche e al riparo dai tentacoli del profitto privato.
Soggetti, i partiti, che oggi rendono più credibile una falsa democrazia attraverso forme illusorie come la partecipazione, la scelta di persone nuove, la scelta di decisioni politiche prese prima a tavolino da altri.
Fanno della democrazia un vanto personale o meglio un sistema di propaganda permanente per influenzare l’opinione pubblica e portare a casa consenso.
Illudono i cittadini di essere protagonisti nelle scelte politiche del loro paese con la stessa tecnica pubblicitaria adottata nel mondo dei consumi.
Elaborano stime, numero degli iscritti, numero dei partecipanti alle consultazioni interne in modo del tutto discrezionale e sono dotati di strumenti di garanzia e disciplinari propri, in sostanza partiti controllori di se stessi.
I loro apparati, che definiscono a base democratica interna, sono dotati di statuti modificabili al bisogno e in qualunque tempo con il solo obbligo di iscrizione sul Registro delle Persone Giuridiche.
A differenza di altre associazioni private i partiti, sebbene in possesso di personalità giuridica, successivamente all’elezione dei propri rappresentanti nelle istituzioni, si appropriano dello spazio pubblico e, in nome della governabilità, lo gestiscono in modo discrezionale in virtù di politiche già predisposte nelle stanze di partito e discusse successivamente nelle istituzioni in modo formale.
Mentre in passato si assicuravano finanziamenti pubblici, oggi si auto finanziano con donazioni volontarie (due per mille) di iscritti e simpatizzanti e attraverso considerevoli donazioni dei propri tesserati posizionati nelle istituzioni, nei consigli di amministrazione e ai vertici di aziende private che gestiscono servizi pubblici, ma possono anche finanziarsi con feste, spettacoli, attività di formazione ecc. e, anche se arrivano a beneficiare di cifre considerevoli all’anno, nonostante la natura privata, non sono soggetti ad imposizione fiscale.
Dal momento in cui i propri militanti sono eletti dal popolo sovrano nelle istituzioni, i partiti da semplici privati si arrogano ogni diritto di gestione della cosa pubblica comprese le risorse economiche messe a disposizione dalla collettività, anche se le cronache, a partire da tangentopoli, documentano come sia venuta a mancare loro una componente fondamentale del metodo democratico: l’onestà.
Oggi lo Stato “impresa” resta solo un ricordo per gli italiani in virtù degli ultimi quarant’anni di privatizzazioni frutto della politica dei partiti.
Un buon ricordo, considerato che negli anni settanta, le famiglie italiane si collocavano in vetta alla classifica mondiale per il risparmio e l’Italia al settimo posto come potenza industriale.
Diversamente oggi l’ISTAT ci informa che il settanta per cento delle famiglie italiane non riesce a produrre risparmio.
Di quel benessere economico restano solo macerie, al contrario dilaga speculazione, corruzione e per quanto riguarda il commercio incalza sempre più la frode sui beni di largo consumo, a danno di produttori e consumatori italiani.
Un danno che se da un lato incide sulla salute dei consumatori dall’altro danneggia quella piccola – media impresa italiana che da sempre si è resa protagonista nel mondo per aver esportato il cosiddetto marchio made in Italy.
La fiamma repubblicana risulta sempre più incerta, ma per illudere il popolo italiano e mostrare più basso il tasso di disoccupazione giovanile, l’attuale classe politica dirigente si è inventata nuovi posti di lavoro con contratti di lavoro per i giovani a tutele crescenti per arrivare a nuove forme di lavoro accessorio remunerato con buoni lavoro, vaucher del valore nominale di 10 euro, di cui 7,50 a favore del lavoratore per un’ora di lavoro, senza diritto a prestazioni di malattia, maternità, disoccupazione, assegni familiari ecc..
All’interno di una crisi economica orchestrata dal potere economico e finanziario mondiale, in cui l’Europa per importanza geopolitica rappresenta lo scenario principale, nel nostro Paese i partiti producono politiche che calpestano le tutele per il lavoro previste dalla Costituzione e sfruttano con miseri salari quei lavoratori che si ritrovano privi di occupazione.
Politiche queste che, in un Paese come l’Italia ai primi posti per prelievo fiscale, vengono propagandate dai partiti con il motivo di fronteggiare il lavoro sommerso, ma che in realtà sono “ordinate” per ridurre i salari ed ottenere la totale flessibilità d’impiego dei lavoratori nel ciclo produttivo.
L’ultimo decennio ci ha consegnato quattro governi “tecnici” (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni), creati nelle stanze di palazzo, non legittimati dagli italiani, la cui classe politica dirigente, all’insegna dell’austerità imposta dalle regole europee, ha sferrato un duro attacco al mondo del lavoro ed ai diritti acquisiti dai lavoratori tanto che la Corte Costituzionale è stata chiamata dai Sindacati a pronunciarsi sulla legittimità di alcune riforme sul lavoro del Governo Renzi per le quali è stato chiesto un referendum abrogativo.
La principale causa di questo scenario politico è riconducibile a norme comunitarie improntate ad una politica di riduzione del costo del lavoro che hanno sostituito la dignità del lavoratore con la garanzia della stabilità dei prezzi sui mercati.
Hanno contribuito a svilire il rapporto di lavoro con forme d’impiego del lavoratore sempre più flessibili e all’interno del processo produttivo, “parificato” i lavoratori (risorse umane) alle risorse tecniche.
Hanno concorso, in particolare nei paesi occidentali, al cambiamento del modello sociale fondato sulla famiglia con un nuovo modello la cui cellula elementare è l’individuo solo, fidelizzato dal mondo dei consumi e privo di progettualità futura, fatta eccezione per il percorso professionale per cui è stato formato.
Un individuo dotato di conoscenza “specialistica” tuttora ancorata alla separazione dei saperi, incapace di educare la società ad un pensiero della complessità, a rafforzare la percezione globale.
Oggi in Italia sono otto milioni le famiglie costituite da single, raddoppiate rispetto all’ultimo decennio (dati ISTAT).
Il governo Renzi, con un voto di fiducia, ha tentato di sferrare l’ultimo attacco a quel che resta della democrazia con la riforma della parte seconda della Costituzione – Ordinamento della Repubblica, ma il popolo sovrano, in virtù dell’istituto di democrazia diretta, referendum 4-12-2016, è riuscito ad opporsi e a tenere ancora accesa la fiamma repubblicana.
Mentre l’Italia è un paese sempre più povero chi occupa i più alti scranni delle istituzioni continua genericamente ad affermare che la colpa è della crisi e, attraverso striminziti dati statistici, non perde occasione di intravedere segnali di ripresa economica per infondere illusorio ottimismo.
Lo sguardo rivolto all’art. 1 della Costituzione e la realtà di quanto appena affermato aiuta a capire come il concetto di democrazia è strettamente legato al lavoro ed in particolare alle politiche economiche che ne favoriscono il suo sviluppo.
Se manca il lavoro si riducono per il bilancio dello Stato gran parte delle entrate che hanno origine grazie ad un sistema fiscale che tassa sia il lavoro sia i consumi generati a loro volta da un potere d’acquisto delle famiglie riconducibile al lavoro.
Finanziare l’apparato istituzionale dello Stato, i servizi pubblici, lo stato sociale, i processi di ricostruzione in caso di calamità naturali, le politiche di salvaguardia dell’ambiente, significa garantire la difesa del bene comune, la tutela del lavoro e della democrazia, la salvaguardia dell’ordinamento repubblicano, i valori e i principi della Carta Costituzionale.
Affinché si possa raggiungere questo obbiettivo il popolo italiano dovrà riappropriarsi della sovranità monetaria e tornare a dirigere le politiche economiche e monetarie, con l’uscita, non dall’Europa, ma dall’Eurozona, una zona di valuta a cambio fisso progettata e realizzata solo per favorire speculazione sul commercio e speculazione finanziaria.
Una trappola ben oliata per governare facilmente interi Stati e obbligarli, a loro volta, a governare i propri popoli senza una moneta.
“Datemi il controllo della valuta corrente di una nazione e non mi interessa chi fa le sue leggi” (Baron Mayer Amschel Rothschild)
Interrompere e invertire il processo euro significa fermare il declino del Paese e l’aumento della povertà affinché il popolo italiano non diventi meno benestante degli stessi migranti che le viene richiesto di accogliere.
Questo primo passo servirà a ricollocare al centro delle politiche economiche lo Stato come impresa pubblica, ma soprattutto come arbitro del sistema economico privato affinché quest’ultimo non risulti in contrasto con l’utilità sociale.
Allo stesso tempo si potrà frenare il processo neoliberista e con esso la speculazione e la corruzione politica.
Insieme a questa misura occorrerà però ripensare alla necessità di un’opportuna revisione dell’art. 49 della Carta, ossia introdurre, come per il lavoro, garanzie reali per la tutela della democrazia.
Interrogarsi, alla luce dell’attuale realtà italiana e di quei timori che alcuni padri costituenti manifestarono già nel ’48, durante la fase dei lavori preparatori alla formazione dell’art. 49, sulla necessità di rivedere il profilo dei partiti politici.
Così come sono i partiti non offrono vere garanzie di democrazia né tantomeno l’azione vigile della magistratura, chiamata in causa con frequenza a dir poco impressionante, sembra rivelarsi un buon deterrente affinché queste formazioni privilegino il bene comune attraverso regole democratiche certe e cessino di illudere e distrarre il popolo italiano con tutta una serie di forme di falsa democrazia interna.
La Costituzione disciplina l’esercizio della sovranità secondo due principali modelli:
-
di democrazia rappresentativa, in cui il corpo elettorale elegge, attraverso una delega i suoi rappresentanti ai vertici delle istituzioni pubbliche per esercitare il potere politico e perseguire interessi di portata generale secondo un programma elettorale da realizzare di norma entro la scadenza del mandato;
-
di democrazia diretta, caratterizzato dalla partecipazione in prima persona dei cittadini alle scelte politiche attraverso istituti previsti dal nostro ordinamento giuridico che assolvono all’esercizio della sovranità popolare in forma suppletiva, integrativa e correttiva del modello rappresentativo.
Il frequente ricorso a strumenti di democrazia diretta come il referendum mostra come oggi i partiti al governo non offrano più quelle garanzie per costruire una politica in cui, in proporzione al consenso ricevuto, possano trovare spazio per concorrere all’azione di governo anche le cosiddette forze di minoranza.
Allo stato attuale chi conquista la maggioranza, grazie a premi elettorali, o consensi “viziati” da voti di ballottaggio, si arroga il diritto di imporre per l’intera legislatura la propria linea politica in ragione della stabilità di governo, ignorando il contributo delle minoranze legittimamente elette.
Minoranze a cui non resta altro compito che vigilare sulla legittimità dell’operato della maggioranza con la speranza di qualche passo falso della stessa in modo da accorciare i tempi della legislatura e ritornare al più presto al voto.
In un simile contesto soffre la democrazia perché non esiste un reale confronto e partecipazione comune alla formazione del disegno politico, ma si crea un’inutile gara tra i partiti per porre in evidenza chi è più bravo a governare, è onesto, è coerente con il programma elettorale presentato agli elettori.
In effetti, da una riflessione più approfondita, emerge che non si tratta di crisi del modello rappresentativo come alcuni vanno affermando, ma probabilmente della crisi di quel sistema bipolare, nato in nome della stabilità di governo, ma in realtà come risultato dell’incapacità politica dei partiti nell’assicurare regole per una reale democrazia a tutela di tutti gli interessi legittimamente rappresentati.
In sostanza, la governabilità ha coperto con una maschera il volto della democrazia.
Una maschera di cui si è servito anche il Capo dello Stato per avvallare quattro governi “tecnici” che da oltre un decennio hanno di fatto congelato l’esercizio della sovranità popolare.
In ogni caso al popolo sovrano interessa una reale democrazia in cui i propri rappresentanti, in proporzione al consenso ricevuto, possano incidere sulla vita politica del Paese.
Se dunque i partiti sono parte integrante della democrazia, in quanto espressione della sovranità popolare, si dovrà cercare e trovare un nuovo modello che possa consentire a tutte le forze una reale partecipazione a costruire la politica nazionale in relazione al consenso ricevuto.
Al momento la fiamma repubblicana stenta a restare ancora accesa in quanto il suo comburente (democrazia) è sempre più raro.
Nel ‘48 i padri costituenti riconobbero lavoro e democrazia come punti fondamentali della Carta, ma se per il lavoro inserirono le necessarie tutele (art. 39 Cost.) la stessa cosa non avvenne per la democrazia o meglio per quei soggetti che avrebbero dovuto garantirne l’esercizio: i partiti politici (art. 49 Cost.).
Alcuni costituenti capirono subito che l’efficienza della macchina democratica trovava origine nei partiti: se funzionavano i partiti funzionava la democrazia, in caso contrario sarebbero affiorati pericoli di tirannia e abusi da parte dei partiti, esattamente quello che è successo nel nostro Paese da oltre dieci anni.
Per questo motivo la Costituzione richiede ai partiti solo il metodo democratico, ma la determinazione delle modalità del loro agire sono lasciate integralmente alla volontà dei consociati.
Il 4 marzo 1947 l’Assemblea Costituente iniziò la discussione generale del progetto di Costituzione della Repubblica italiana, Bozzi affermò: (…) “Io trovo due grandi assenti in questo progetto: i partiti e le organizzazioni sindacali. Oggi la vita dello Stato poggia su queste forze: sulle forze organizzate del lavoro e sulle forze dei partiti. Bisogna constatare il fenomeno, se anche può dispiacere. I partiti hanno una funzione pubblica nella vita dello Stato moderno, talché alcune Costituzioni li disciplinano giuridicamente. Il problema fondamentale è questo: attuare nell’interno dei partiti il metodo democratico che è indispensabile, perché la democrazia possa, poi, informare tutta la vita dello Stato. Io non vedo, nel progetto, i rapporti tra lo Stato, i partiti e le forze del lavoro. Bisogna evitare che questi due ultimi elementi si possano porre fuori e contro lo Stato”.
Nella stessa seduta Calamandrei dichiarò: (…) “I partiti, in realtà, come voi sapete, sono le fucine in cui si forma l’opinione politica, e in cui si elaborano le leggi: i programmi dei partiti sono già progetti di legge.
I partiti hanno cambiato profondamente la natura degli istituti parlamentari.
E allora si sarebbe desiderato che nella nostra Costituzione si fosse cercato di disciplinarli, di regolare la loro vita interna, di dare ad essi precise funzioni costituzionali.
Voi capite che una democrazia non può essere tale se non sono democratici anche i partiti in cui si formano i programmi e in cui si scelgono gli uomini che poi vengono esteriormente eletti coi sistemi democratici.
L’organizzazione democratica dei partiti è un presupposto indispensabile perché si abbia anche fuori di essi vera democrazia.
Se è così, non basta dire, come è detto nella Costituzione, che «tutti i cittadini hanno diritto di organizzarsi liberamente per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Non basta. Che cosa vuol dire, infatti, metodo democratico? Quali sono i partiti che rispondono alle esigenze del metodo democratico, e quindi sono degni di esser riconosciuti in un ordinamento democratico?(…)” e proseguì: (…) “Era stato suggerito che nel nostro ordinamento la Suprema Corte costituzionale avesse fra gli altri compiti anche il controllo, sui partiti: che essa avesse il potere di giudicare se una associazione a fini politici abbia quei caratteri di metodo democratico alla cui osservanza sembra che la formula dell’articolo 47 voglia condizionare il riconoscimento dei partiti. Ma se non la Corte costituzionale a dar tale giudizio, chi lo darà?
(…)Quando invece si avesse una sezione della Corte costituzionale per verificare quali sono i partiti che corrispondono, per la loro organizzazione e per i loro metodi, alla definizione data dalla Costituzione, vi sarebbero garanzie molto più sicure per poter impedire ai partiti antidemocratici di risorgere ed ai partiti democratici di non essere soppressi e perseguitati da soprusi ed arbitrî di polizia.”
Il giorno seguente, 5 marzo 1947 l’Assemblea Costituente proseguì la discussione generale del progetto di Costituzione della Repubblica italiana, Tupini affermò: (…) “Punto centrale e fulcro di tutto l’ordinamento è il Parlamento.
(…) E così, ovunque il Parlamento non sia espressione di libero voto ed autore di libere determinazioni, la democrazia è la maschera e non il volto di un regime democratico.
A chi spetterà, onorevoli colleghi, il compito di rendere vitale ed efficace il nostro sistema parlamentare? Soprattutto, e direi esclusivamente — non si scandalizzi nessuno — ai partiti.
(…) è illusione o ipocrisia affermare o anche pensare che un regime democratico possa oggi funzionare senza partiti, senza i partiti politici. Non è il sistema dei partiti che va criticato, ma sono le colpe specifiche, sono le concezioni eterodosse dal punto di vista democratico di alcuni partiti che vanno combattute; altrimenti si combatte la stessa democrazia che non può funzionare al di fuori di essi e della loro realtà.
Questa preoccupazione portò i padri costituenti ad approvare l’attuale stesura dell’art. 49 affinché il metodo democratico dovesse valere soprattutto nel funzionamento interno dei partiti, sulla base di principi quali la solidarietà, l’eguaglianza, la pari dignità, la trasparenza, tuttavia non si pensò alla necessità di un controllo come garanzia della democraticità interna dei partiti politici.
Le cronache di tutti i giorni però ci mostrano come la democrazia interna dei partiti viene sempre più falsata con finte elezioni primarie, in cui si scopre che la partecipazione è a pagamento o si aumenta il numero delle schede bianche per propagandare una più massiccia adesione al voto oppure viene falsato il numero delle firme per le candidature nelle istituzioni.
In particolare le elezioni primarie non rappresentano uno strumento di partecipazione effettiva, bensì la maschera della democrazia interna in quanto i canditati da scegliere non sono il frutto di un percorso politico condiviso, ma si tratta di soggetti prescelti da un ristretto gruppo dirigente che lascia infine “la scelta” a iscritti e simpatizzanti con una sorta di “mi piace”.
Anche la politica prodotta all’interno del partito risulta finta, fatta di incontri, assemblee, mobilitazioni di facciata che servono solo a ratificare decisioni già prese da altri.
In sostanza i partiti si rivelano come mostri a due teste che da un lato si appellano al diritto di riservatezza, proprio dei soggetti privati, e dall’altro si nutrono di risorse pubbliche in una dimensione opaca, espressione di corruzione e perversa contaminazione di interessi pubblici-privati.
In un simile scenario i cittadini non si riconoscono più nei partiti e se lo fanno non è per ideologia politica bensì per “consumare” un voto di scambio con la stessa facilità con cui il modello dei consumi li spinge a acquistare beni materiali.
Ma ciò che desta più preoccupazione per il futuro del Paese è che a questi partiti il cittadino risponde con populismo e qualunquismo.
Occorre dunque strappare la maschera e ridare il vero volto al regime democratico con un progetto politico di sovranità nazionale in cui la politica elaborata dal sistema dei partiti offra garanzie reali per la democrazia.
Un progetto elaborato da nuovi soggetti organizzati in modo collettivo che diffonda l’attuale conflitto presente nella società per riuscire a contrapporlo al neoliberismo dominante, come ideologia e come modello economico.
Un nuovo pensiero, portavoce di giustizia sociale, capace di imporsi ad una vecchia millenaria ideologia politica che continua a riconoscere solo nella finanza l’aspetto più efficace del governo politico.
Ritornare a far brillare la fiamma repubblicana vuol dire lavorare per il bene comune, uscire dai tentacoli di quei poteri sopranazionali che in nome del profitto stanno lentamente flagellando l’Italia e l’intero pianeta.
Restare inermi significa decretare la fine del vero regime democratico, dell’ordinamento repubblicano, ma allo stesso tempo dell’identità nazionale e culturale del popolo italiano.
I precedenti articoli di A.G. Vox per VOX POPULI:
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