Sembra impossibile che paese di sessanta milioni di abitanti non riesca ad avere un’economia che possa sostenere l’intera popolazione, consentendole un buon tenore di vita.
Peraltro, è lo stesso paese tra le prime potenze industriali del pianeta. Un paio di decadi fa.
Una natalità al livello dell’Italia preunitaria (Istat, 2014), al Sud più morti che vivi (Rapporto Svimez 2014).
Ben 8 milioni di persone non svolgono alcuna attività lavorativa (Censis,2014) e un polacco ormai guadagna più di un napoletano (Istituto di statistica europeo, 2011). E la dolce vita? E’ solo quella del 10% della popolazione che possiede il 50% della ricchezza (2014, Il Sole 24 Ore).
Come è potuto accadere?
I primi accenni di deindustrializzazione e di finanziarizzazione dell’economia si avvisano nei primi anni ’80, con l’adesione dell’Italia allo SME (sistema monetario europeo). Gli alti tassi di interesse atti a sostenere il tasso di cambio, sono molto più allettanti del rischio d’impresa.
Paradossalmente mentre aumenta il risparmio privato, iniziano i primi segni di deindustrializzazione e delocalizzazione della produzione. Produzione che si converte in servizi parallelamente allo sviluppo di tecnologie, comunicazioni e telecomunicazioni.
Lo Stato decide di ritirarsi progressivamente dall’economia, dall’industria, dai settori non strategici come dai servizi non essenziali. Iniziano i tagli alla spesa pubblica, quindi al risparmio e al reddito del settore privato. I salari vengono sganciati dall’adeguamento al tasso di inflazione; viene deregolamentato il sistema finanziario, ormai totalmente privatizzato.
Il processo di privatizzazioni italiane degli anni (‘90/2000) è secondo solo alla Gran Bretagna neoliberista di Margaret Thatcher.
Dulcis in fundo, la deregolamentazione del mercato del lavoro (Pacchetto Treu – 1997, Riforma Biagi – 2003, Job Act 2015): da qui la svalutazione dell’economia interna di un paese esportatore, essendo impossibile quella estera dopo l’adesione alla zona euro (2002).
Col crollo del muro di Berlino e dell’implosione dell’Urss, il mondo viene delimitato da una selva di trattati internazionali che lo modellano alla nuova epoca.
Nel 1995 nasce il WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) a immagine e somiglianza dei principi neoliberisti di libero scambio e libero movimento delle merci e dei capitali ed innesca un processo depressivo nel Primo mondo. Il Secondo mondo riesce ad attrarre una quantità crescente di investimenti diretti esteri, mentre da queste parti prevale la tendenza alle delocalizzazioni: deindustrializzazione e diminuzione dell’occupazione industriale.
Il grande divario ormai permanente, tra la crescita del Pil dei paesi avanzati e quella dei paesi emergenti, comporta un rallentamento della crescita dei salari e quindi dei consumi in Occidente. Questo processo regressivo, che ha origine all’inizio degli anni novanta, riguarda l’economia e la società, non il Capitale.
I Trips, gli accordi del WTO che proteggono i diritti di proprietà sull’attività intellettuale, tutelano le imprese multinazionali del primo mondo garantendo loro il monopolio legale sulla ricerca scientifica e tecnologica (brevetti, copyright ecc…). Il Capitale dei paesi emergenti sfrutta il vantaggio che ha sul costo del lavoro, in virtù della bassa tutela dei diritti e della sicurezza del lavoro. Produce beni di consumo di massa con tecnologia importata e li esporta nei paesi più sviluppati facendo concorrenza alle loro imprese meno competitive.
E’ l’alleanza tra gli attori del Capitale globale, saldatura che comporta redistribuzione del reddito: dai salari ai profitti delle multinazionali.
In conseguenza delle tendenze depressive dovute ai bassi salari, c’è comunque una moderata crescita economica.
Come? Grazie al credito privato. La classe media si sta impoverendo nei fatti, ma continua a consumare a debito (macchine, computer, viaggi, case) fortemente incentivato dai bassi tassi di interesse.
Una enorme bolla speculativa scoppia nel 2008 in Usa, come risultato di una crescita drogata, che maschera in realtà gli effetti reali del trasferimento di ricchezza in atto dai salari di molti ai profitti di pochi.
La grande crisi che viviamo è in realtà un contingentato e coatto processo di accelerazione della “globalizzazione”. Parola coniata dall’economista Kenichi Ohmae. Egli considera superato il “paralizzante” Stato – nazione, trasformatisi in Stato – regione.
Una regione del mercato mondiale. Soltanto di ricchi e di poveri.
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